Dal Serpente al Calice
Omaggio a San Barbato
“Che senso ha una mostra d’arte contemporanea in una piccola cittadina e su un tema di carattere
antropologico-religioso? Chi sono e che cosa rappresentano San Barbato, il serpente, il calice? Più in generale, che cos’è l’uomo e, in modo particolare, qual è l’essenza dell’uomo contemporaneo?
Con il libro Alla corte dei Feaci Antonio Martone propone una rilettura di Ulisse inteso come figura archetipale da tradurre nei personaggi che affollano la nostra quotidianità. Insomma, Ulisse oscilla fra la storia e il mito. Si tratta di un uomo disperso nel navigare, il cui incontro con il racconto della propria leggenda, presso i Feaci, lo riconduce a sé stesso.
Da questo punto di vista, pertanto, il discorso si sviluppa sull’enigma del Sé. Il Sé può essere sì un Io storico, individuale ma è anche un Sé archetipale, metafisico, universale. Quale dei due esiste? O esistono entrambi? O la presenza dell’uno nega l’altro? O possono coesistere? Sono questioni aperte ed inesauribili a cui la mostra che presentiamo intende offrire qualche spunto.
Che cos’è l’albero? Che cos’è ciò che dalla terra si protende verso il cielo? Che cos’è inoltre l’ascia? Per ogni uomo si pone il dilemma del dover scegliere fra il partecipare e il distaccarsi. Che cos’è la rinuncia? Che cos’è il serpente? Che cosa in noi striscia sul ventre, che cosa si avvolge su sé stesso? Che cosa può avvelenare la vita? Che cosa, di contro, può sollevarsi verso l’alto? Che cosa in noi può addormentarsi profondamente? Che cos’è infine il calice?
Gli artisti invitati a trattare tali temi hanno in comune l’aver scelto una forma d’arte “decentrata” rispetto alla visione del mondo contemporanea. Diciamo con Martone che non si tratta d’un rifiuto dei saperi della tecnica, ma del bisogno di affermare una ricerca dell’umano oggi forse occultata. Abbiamo considerato utile, pertanto, far riferimento alla figura del Vescovo Barbato, intendendola come essenza spirituale di una comunità; come una radice storico-archetipale nel cui mito la comunità stessa si riconosce.
Pensiamo sia importante una riscoperta e una ri-valorizzazione di tali eredità: l’uomo contemporaneo-Ulisse, prendendo coscienza dei simboli del mito e del loro valore metafisico potrebbe riscoprire parti del proprio Sé, del corpo e della psiche, reintegrando la propria vita nel flusso sociale e storico.
Gennaro Angelino lavora coi legni delle nostre terre, prevalentemente l’ulivo. Antonio Martone offre un’analisi filosofica del mondo contemporaneo denunciandone le derive esistenziali ed elaborando una forma d’arte che ricorda il valore eterno della natura. Sofia Maglione ha scelto una tecnica pittorica classica confrontandosi continuamente con il ritratto. Ernesto Pengue vive il sentimento del male e ci avverte dei pericoli della civiltà, tendendo come esito finale verso il simbolo puro (l’opera in mostra poggia sulla struttura d’un cerchio diviso per sette).
La coppia artistica Pasquale Carosone-Antonella Izzo si muove su una gamma amplissima di espressione: dal teatro dell’assurdo del Novecento alle ricerche sui canti popolari e sulle danze sacre campane. Alfonso Viscusi presenta più opere in questa mostra e funge da filo conduttore dell’intero racconto.
Nelle prima stanza vi sono ritratti di esseri umani. Vi si pone il problema del serpente avvolto su di sé come questione identitaria che attiene al corpo e alla relazione con l’altro. Nella seconda stanza, invece, si presenta il racconto legato al faticoso viatico della purificazione del sé. Il metallo fuso diviene rivolo, filo di luce, possibilità d’una nuova tessitura; d’una direzionalità e finalità del Sé. Nella terza stanza, infine, si presenta l’”ipotesi” d’una trasfigurazione del Sé. L’approdo al calice può offrire all’uomo piccole immagini di cielo? È su questa domanda che la mostra si conclude lasciando che ciascuno dia la propria risposta.
Alfonso Viscusi
“Graffi di Cielo è una performance teatrale inquadrata nel senso complessivo della mostra Dal Serpente al Calice. Omaggio a San Barbato. Una sacerdotessa ed un musico intrecciano i fili di un racconto di ideali, di emozioni, di sentimenti incisi sui corpi visibili e sulle pareti più intime dell’animo umano. L’azione si svolge in perfetta sintonia con le opere in mostra, sviluppandosi attraverso un processo alchemico che si avvale di varie forme d’arte condensate nel gesto d’una rappresentazione che utilizza, nella stessa maniera, forme d’arte diverse che vanno dalla parola alla musica. Dal Serpente al Calice, dall’Ombra alla Luce, dalla Terra al Cielo, dal Padre al Figlio, dalla Materia all’Opera d’Arte, dalle Parole alla Poesia, dal Respiro al Canto, dalla Recitazione alla Vita, il testo è costruito attingendo liberamente dalla silloge poetica Alla corte dei Feaci di Antonio Martone.
Scinne, ’o cielo nun se tocca cu ’e mmane. L’anema nun se vede ma se sente, scinne! Il colore del cielo è solo un racconto. Del cielo il colore mai non sapremo.”
Antonella Izzo – Pasquale Carosone
“Il tempo in cui viviamo comporta un livello di comunicazione totale se non totalitaria. Esso si caratterizza in quanto privo di discontinuità: ogni “sezione”, ogni “cellula” che compone la struttura complessiva si sente costantemente connessa ad un mega-apparato del tutto anonimo e privo di significato. L’orientamento della comunicazione, all’interno di questo scenario, appare meramente orizzontale e il tempo è concepito in quanto privo di interruzioni che non siano “eventi” simulati, senza profondità e reale trascendenza.
È necessario mutare radicalmente questo scenario. Occorre cioè ritornare ad abitare quello spazio interiore che s’identifica proprio con ciò che interrompe la comunicazione piatta e conformista del nostro tempo per riproporre un confronto indispensabile con le nostre paure ancestrali e il senso più profondo del nostro ek-sistere sulla terra. La comunicazione totale della città elettronica che abitiamo non è un destino: il destino, invece, è l’uomo con i propri silenzi, le proprie pause e con, in una parola, il proprio vuoto interiore – un vuoto che è immanente e trascendente nello stesso tempo.
Occorre pertanto ricominciare a conferire valore ad una temporalità discreta. È necessario rompere il continuo della catena temporale creata ad arte dal capitalismo globale contemporaneo. Insomma, si frantumi la scena della spersonalizzazione collettiva nella quale “la società dello spettacolo” non smette di galleggiare.
Per quanto non sia facile, tutto ciò è indispensabile se vogliamo recuperare quell’unicità che ci costituisce. Noi siamo unici, non certo nel senso di uomini senza passato, immersi nell’orgia collettiva della società di massa e preda dei capricci che costantemente il capitale promette di soddisfare. Molto diversamente, la nostra unicità risiede nel fatto che ci avvertiamo donne ed uomini capaci di costruire una biografia che sia nostra, di edificarla sulla base della cultura a cui apparteniamo e che ogni giorno rielaboriamo facendola diventare futuro. E’ soltanto grazie alla nostra unicità, pertanto, alla libertà che sentiamo dentro e al nostro coraggio, che possiamo “possedere” la storia fino in fondo. Non ci sarebbe alcuna storia se non vi fosse l’unicità di ciascuno a dare un senso e un corso a ciò che altrimenti sarebbe statico: la storia, in definitiva, ha bisogno di noi per essere fatta.
Credo pertanto che vi sia oggi al mondo un radicale bisogno di superare una fase che si regge su un individualismo sbigottito. Le donne e gli uomini contemporanei mostrano fragilità da animali d’armento: la forza critica è pressoché cancellata e le capacità di resistere alle innumerevoli menzogne che circolano senza posa nel grande teatro della comunicazione pubblica è ridotta al minimo. Occorre, quindi, sconfiggere la paura attraverso il pensiero: è necessario, soprattutto, una coscienza sobria, essenziale, volta a disoccultare il fondo/orizzonte della nostra mente, spesso ricoperto dai miti creati ad hoc dal capitale.
Nel nostro tempo, il vuoto strutturale dell’uomo si è ritratto in sé stesso. Non riempito più dalle idealità che avevano accompagnato lo svolgersi della modernità, esso ha posto il denaro e la tecnica al posto dei simboli antichi. Sullo spazio pubblico, esistono almeno due grandi masse che si contrappongono – anche se spesso in maniera inavvertita. Mentre la prima massa, molto più limitata di numero ma con le mani piene di potere, costituisce una vera e propria oligarchia, la seconda, numerosissima, vive all’interno d’un vuoto di senso che non riesce a divenire consapevole di sé e del proprio ruolo storico. In questo contesto, il compito della filosofia e dell’arte con-siste giustappunto nello sviluppare una linea di resistenza su questa distanza/differenza. È necessario che l’arte e la filosofia, cioè, facciano vedere l’inganno, denudando la grande menzogna che consiste nell’assolutizzazione dell’immanenza materialistica ai danni della trascendenza e della libertà.
Se tutto ciò dovesse diventare, pian piano, coscienza diffusa, consapevolizzandosi, il vuoto di senso potrebbe capovolgersi in senso del vuoto – in coscienza rinnovata dell’esperienza umana, dei suoi limiti e delle sue possibilità. Quando ciò avverrà, se ciò avverrà, l’umanità sarà protagonista di una svolta antropologica senza precedenti. Una svolta non tanto e non solo di tipo etico-politico, quanto piuttosto di stampo “estetico-metafisico”. Tale cioè da coinvolgere da presso l’intera visione del mondo contemporaneo – con i suoi riti, i suoi miti e le sue ossessioni. Insomma qualcosa che implica la trasformazione (o la trasvalutazione, come diceva Nietzsche) di tutti i valori”.
Prof. Antonio Martone
Curatore: Alfonso Viscusi
Testi e catalogo: Antonio Martone
E-mail: sofiamaglione@virgilio.it
Per maggiori informazioni: https://www.istitutostoricosanniotelesino.it/